La dipendenza affettiva

La dipendenza affettiva è un fenomeno attualmente molto diffuso ma ancora poco indagato dal punto di vista clinico. Ad oggi infatti la “love addiction” non risulta inclusa nel manuale diagnostico  dei disturbi psichiatrici utilizzato dagli addetti ai lavori (DSM-V)  bensì viene annoverata tra le “nuove dipendenze”, ovvero le dipendenze comportamentali  in cui il comportamento disfunzionale non è legato alla ricerca dell’effetto di una specifica sostanza, bensì agli effetti dell’attuazione del comportamento stesso che nel caso della dipendenza affettiva sono la ricerca ed il controllo costante, spesso ossessivo, del partner. Sembrerebbe più diffusa tra le donne ma non ne sono risparmiati anche gli uomini e i dati attuali potrebbero essere influenzati da una minore tendenza degli uomini a chiedere aiuto psicologico per problemi di questo tipo.

Possiamo definire la dipendenza affettiva come una modalità disfunzionale di entrare in relazione che può essere riassunta dalla frase: “senza l’altro non posso vivere”. Il dipendente affettivo ritiene di non essere degno di amore e di non poter bastare a sé stesso, ricerca pertanto un partner a cui potersi legare per poter sopravvivere e che possa svolgere, almeno ad un livello idealistico, funzioni di cura e supporto. Nella realtà spesso però queste funzioni non sono svolte dal partner, che anzi può essere portato a sfuggire alle richieste e alla pressioni del dipendente affettivo. Se ci soffermiamo sulle dinamiche tipiche di queste relazioni notiamo che in realtà ciò che impedisce di porre fine alla relazione non è tanto l’effettiva mancanza del partner per il sentimento che si prova o per la stima nei confronti della persona amata, quanto piuttosto per la paura di perdere l’altro e restare da soli.

Occorre subito fare una precisazione: la dipendenza affettiva non ha nulla a che vedere con una relazione di coppia sana. Quest’ultima riguarda due persone, intese come due individui separati, ciascuno con le proprie peculiarità, risorse e fragilità, che entrano in relazione creando la coppia, qualcosa di più dei singoli individui intesi separatamente, nella coppia sana  1+1=2. Lo stesso non può dirsi della dipendenza affettiva nella quale più che di due persone che entrano in relazione, sembrerebbe più opportuno parlare di due metà che si uniscono per creare un tutt’uno. Si intuisce come tale scenario lasci poco spazio alla crescita, all’arricchimento, alla reciprocità. Se la relazione di coppia sana arricchisce, la dipendenza affettiva impoverisce, nel tentativo di fusione con l’altro, si sacrifica una parte del proprio sé.

Una relazione sana potrebbe essere rappresentata dalla metafora di due persone che si tengono per mano e percorrono i sentieri della vita procedendo nella stessa direzione. Nella relazione di dipendenza la metafora potrebbe essere quella di un partner che insegue l’altro, costretto ad ignorare i proprio bisogni pur di non perdere di vista l’altro.

Le radici della dipendenza affettiva sono da ricercarsi nella nostra infanzia, nel legame di attaccamento alle nostre figure significative: evidentemente qualcosa ha portato il dipendente affettivo a credere di non essere meritevole di amore. È come se nel dipendente affettivo abitasse una parte bambina, mai cresciuta,  affamata di cure e attenzione che ricerca le stesse nella relazione di coppia.

Quindi tutta colpa dei genitori? Una simile affermazione sarebbe riduttiva oltre che controproducente per il dipendente affettivo stesso che ancora una volta potrebbe assumere un atteggiamento di delega della propria salvezza agli altri. Personalmente trovo più utile sostituire il termine colpa con responsabilità. Lavorando molto con le famiglie ho potuto constatare che raramente un genitore desidera nuocere al proprio figlio, quasi sempre invece ha fatto tutto ciò che ha potuto con gli strumenti che aveva a disposizione. È possibile che alcune mancanze non dipendano da assenza di amore verso i figli bensì da eventi di vita che possono aver distratto il genitore da una corretta sintonizzazione con i bisogni del figlio (eventi avversi della vita, problematiche di coppia, lutti, problemi con le famiglie d’origine ecc.) . Inoltre la dipendenza affettiva può anche essere uno stile interpersonale ereditato da  generazioni passate, difficile da scardinare soprattutto per chi non ha mai intrapreso un percorso di conoscenza interiore. Pertanto il dipendente affettivo dovrebbe sostituire il grido di aiuto “salvami” che rivolge al partner  (e che probabilmente verrà riproposto anche con il terapeuta) con l’atteggiamento adulto del prendersi cura di sé stessi. L’obiettivo finale di un percorso psicoterapico è proprio permettere all’adulto che si è diventati di prendersi cura del proprio bambino interiore, facendo da sé quel pezzetto che sfortunatamente i genitori non sono riusciti a fare quando si era piccoli.

Non è un percorso semplice ma spesso è l’unico possibile per permettere alla parte bambina di tornare a giocare dentro di noi piuttosto che governare relazioni di coppia, compito che è meglio lasciare ai “grandi”.

Antonella Nuzzolese
Psicoterapeuta sistemico relazionale