COVID e lutti sospesi

Una delle immagini più rappresentative dell’impatto della pandemia è sicuramente la fila di camion militari che trasportavano le centinaia di salme di morti di covid durante la prima ondata del virus. l’Italia è stato il primo paese colpito, noi siamo stati i primi sul fronte, i primi a fare i conti con la potenza della morte in una società che si credeva immortale. L’immagine era forte di per sé, ma il tutto era reso ancor più grave dal pensiero delle tante famiglie sconvolte da tali perdite, letteralmente bloccate nelle loro case e nel loro dolore, nella più totale sorda e ineluttabile impotenza. Forse si è cercato di combattere questa condizione con l’incessante frastuono di notizie, numeri, statistiche, teorie complottiste, cercando disperatamente di spazzare via con il rumore un dolore incontenibile, costretto a consumarsi nel silenzio della propria casa. I mass media, i social network, le continue web-call sono servite a farci sentire vicini agli altri, ma sempre più lontani da noi stessi.

Ariés sosteneva che la buona morte avviene in presenza, circondati dai propri cari, in un atmosfera di pacificazione, in un addio ritualizzato, in uno spazio per la memoria e per una ricerca di senso.

La pandemia ha cambiato le regole del morire spesso senza un momento di addio, con un sentimento di solitudine del dolore, ha bloccato di fatto le manifestazioni della solidarietà familiare.

Tutti noi ben conosciamo l’importanza dei riti collettivi e del valore contenitivo della comunità nella condivisione dei momenti subito successivi alla perdita di una persona. L’uomo, essere sociale, ha elaborato una serie di rituali condivisi per superare il terrore della propria morte. I riti hanno un valore protettivo in quanto permettono, a chi vi prende parte, di affrontare la perdita  rileggendola come esperienza condivisa, inscrivibile in una storia non più solo propria, ma che appartiene alla comunità.

Bauman sottolinea come i riti commemorativi servano  a chi li compie piuttosto che al defunto, permettendo di immaginare quello che un giorno verrà fatto dai propri successori nei propri confronti, mantenendo vivo il desiderio di immortalità attraverso l’esistenza continuativa della comunità, separando la morte corporea da quella sociale.

Spesso ci troviamo nelle nostre stanze di terapia a chiedere di mettere in scena un funerale, una veglia, una sepoltura ecc., perché tutti noi sappiamo quanto ognuno di questi aspetti sia vitale per accettare la morte. Bowen invitava a portare le famiglie al contatto più intimo possibile con la morte, partendo addirittura dal cadavere nella bara, per poi arrivare alla chiusura della relazione.

Risulta facile immaginare come durante la pandemia siano venuti a mancare praticamente tutti quei fattori protettivi e contenitivi rispetto all’elaborazione del lutto. Tantissime persone si sono lasciate morire in casa, preferendo la fame d’aria alla fame di affetto. Molti hanno lasciato le proprie case su un ambulanza senza farvi mai ritorno, senza più rivedere i loro cari, senza un contatto, senza un abbraccio. Aggiungiamo a ciò una degenza in ospedale circondati da persone senza volto, bardate dalla testa ai piedi. La solitudine avanzava col virus, tanto da portare il personale medico a inventarsi la strategia dei guanti in lattice pieni di acqua calda per simulare una stretta di mano a chi stava morendo.

Dall’altro lato c’erano le famiglie, disperate, bloccate, sole a fare i conti con una morte non morte. Il ricovero in terapia intensiva potrebbe essere accomunato a ciò che Pauline Boss ha definito “perdita ambigua” ovvero un vissuto incostante, un’alternarsi di emozioni speranza e perdita di speranza. In una condizione di tale incertezza diventa difficile organizzarsi e orientarsi perché mancano i suggerimenti giusti e con il sovraccarico delle terapie intensive diventavano anche quasi assenti le comunicazioni con il personale medico. Il carattere straordinario della situazione, l’incapacità di prevedere l’andamento della malattia ha generato vissuti angosciosi sia nelle famiglie che nel personale sanitario, letteralmente stremato dall’emergenza sanitaria.

Aggiungiamo a ciò i sentimenti di colpa legati all’origine del contagio. Sappiamo bene che la prima domanda dopo aver saputo di un contagio era “ da chi lo ha preso?”. Ho ricevuto diverse richieste di aiuto da parte di giovani adulti che si sentivano responsabili di aver portato in casa il virus e di aver messo in pericolo i propri familiari. Ecco che spesso il lutto arriva in un mix di sentimenti fatto di rabbia e colpa che rendono ancora più complesso il processo di elaborazione impedendo la separazione e mantenendo sospeso il lutto.

 Come è possibile, in un tale scenario, elaborare la perdita senza restare cristallizzati in un tentativo di negazione che seppur permette un apparente distacco dal dolore, comporta uno stallo dello sviluppo, un blocco che impedisce la crescita? Cosa permette di non lasciare sospeso il lutto?

Una proposta è parlare del lutto, della perdita; ma anche parlare dei contenziosi rimasti in sospeso. Valutare gli equilibri all’interno della famiglia, restituire a tutti i membri il lutto nel caso in cui esso pesi troppo su un singolo individuo, far circolare la sofferenza nel sistema, ridistribuire il peso del dolore. Occorre parlare di lutto sospeso, occorre rendere possibile l’incontro della famiglia con le famiglie. Senza pretesa di una assoluta consolazione ma offrendo uno spazio di ascolto, confronto che renda possibile coltivare la speranza. Occorre esserci come professionisti del non professionismo In ultimo, non per importanza, fare attenzione all’infanzia! Il bambino necessita di consolazione ma il dolore dell’adulto spesso impedisce al bambino di ricevere consolazione. Il bambino vuole, necessita di capire ma gli adulti spesso ignorano questi bisogni facilitando il lutto sospeso. Gli adulti devono consolare empaticamente i bambini.

Antonella Nuzzolese
Psicologa Clinica