Vi parlo di Loro

Vi parlo di lei. Vi parlo di quando la incrocio per strada, o in un bar, sempre con una sigaretta che trattiene con dita tremolanti, sempre scomposta, sempre affannata dal troppo fumare, dai troppi caffè, dalla solitudine. Vi parlo di me, di come distolgo lo sguardo, di come scappo, di come mi pento, di come tento, ogni volta e senza riuscirci, di tornare indietro e salutarla. Per poterci ricordare di quando copiavamo durante gli stessi compiti in classe, tremavamo per le stesse interrogazioni, ridevamo per le stesse sciocche cose per cui si ride fra i banchi, ci esaltavamo per le stesse passioni, sfrecciavamo sullo stesso motorino, che poi era il mio.

Compagni di scuola, 5 anni nella stessa classe senza capire, senza accorgersi che dietro alcune stramberie si celava un disagio, muto, discreto, insidioso. Solo un anno dopo la maturità la tua vita si è trasformata, e non è più stata la stessa, e tu hai preso un sentiero da cui non sei più tornata indietro. Per un pò ci siamo cercati, siamo rimasti in contatto. Ma io ero andato a studiare fuori, la mia vita proseguiva, e c’era tanto altro ad occupare la mia attenzione. Distrarsi e poi dimenticare è stato un attimo.

Non avrebbe fatto nessuna differenza, mi dico. Le cose sono andate come dovevano andare…

Adesso, a distanza di tanti anni, mi ritrovo a fare lo psicoterapeuta. E la vita, nei suoi strambi disegni, ha scelto di essere generosa con me, e di offrirmi altre possibilità che stavolta ho scelto di non perdere.

Seguo ragazzi, giovani, tanto giovani. Molti di loro frequentano la stessa scuola che anche io ho frequentato.

Li ho davanti a me, nel mio studio, e vedo nei loro occhi la scintilla che con tenacia cerca la strada per raggiungere la disperazione, l’angoscia, l’ansia, la sofferenza, la rabbia che devasta la loro anima, tentando di portare anche solo una piccola luce che riaccenda la speranza.

Si raccontano a se stessi attraverso me, ed io sparisco per restare in un angolo, testimone di questo incontro, talvolta sentendomi un Virgilio che accompagna negli inferi della psiche, talvolta una Beatrice che osserva attraverso il loro sguardo l’incanto di un paradiso possibile.

Non sempre, ma spesso, insieme riusciamo a immaginare nuovi scenari, a visitare panorami dove le cose, anche solo per un attimo, assumono colori diversi: i loro. Pur se fugace, il transito di questi momenti generativi lascia nella coscienza un seme che affidiamo alla volontà.

Quando vanno via, li accompagno alla porta e mi viene voglia di abbracciarli. Molto spesso lo faccio, perché nell’abbraccio si raggiunge la perfetta distanza terapeutica, quella che restituisce il senso del riconoscimento: eccoti, ci sei, ti vedo, ti sento, sei concreto, esisti.

Li guardo giusto un attimo mentre scendono lungo la scala che dal mio studio li riporta nel mondo, li restituisce alla realtà a cui appartengono. Dopo avere vissuto l’incontro più prezioso, quello con la propria essenza, partono per il viaggio eroico che è l’essere nel mondo.

È la loro avventura, sono meravigliosi e tremendamente vulnerabili, ognuno di loro è un cercatore di cose diverse, vanno alla ricerca della loro vita come le anime nel mito di Er raccontato da Platone. Ma a differenza di quelle anime, queste sono già vive, e tali devono restare, perché hanno il diritto di esistere, di crescere, di appartenere, di essere in relazione, di amare ed essere amate, di essere unite e libere allo stesso tempo, di esprimersi, di avere bisogni, di essere viste e ascoltate, di essere vulnerabili, di affermare se stesse, di essere vere, uniche, felici.

Vi parlo di loro, di queste giovani creature che troppo presto incontrano la sofferenza dell’essere, e che ne portano il peso e il tremendo tormento. Immaginateli, vi prego, dibattersi per tornare a galla mentre i flutti oscuri del dolore vorrebbero sommergerli. Vi parlo di loro, e facendolo penso a voi che con queste anime vivete, che siete loro amici, compagni di scuola, genitori, parenti, insegnanti. Lo faccio per chi le vede passare, e in esse si riconosce, così come per chi le ignora, le critica, le offende.

Vi parlo di loro perché ogni piccolo passo che riescono a compiere per tornare a vedere le stelle, va salvaguardato, salutato con rispetto, protetto con amore. Dietro di esso c’è una fatica enorme, perché la sofferenza quando si attanaglia all’anima non la lascia facilmente, e liberarsi richiede una forza ed una volontà enormi. È l’uscita da un lutto costante, quello per la promessa mancata, per l’abbandono subito, per il torto ricevuto nel tempo in cui ci si aspettava arrivasse la gioia.

Vi parlo di loro, e forse lo faccio per me, perché siamo tutti responsabili, e ciascuno di noi può fare la differenza semplicemente tendendo le mani per aiutarli a tornare a galla, per tornare a poter vivere.

Vi parlo di loro perché tutti hanno il diritto di poter essere chi sono, e non ciò in cui il malessere li trasforma.

Dott. Pietro Alessandro Caforio
Psicologo clinico e psicoterapeuta