L’importanza delle sinergie
Era da qualche mese che non lavoravo, dopo aver accumulato un anno di esperienza in una Comunità semi- residenziale e sei mesi in una Comunità residenziale, finalmente mi chiamarono dalla Cooperativa più grande della Provincia per assegnarmi il mio primo lavoro: Educativa domiciliare. Dovevo entrare nelle case di genitori che stavano vivendo un profondo dolore perché la vita li aveva messi davanti ad una dura prova. Io dovevo presentarmi in prima persona, metter in gioco me stessa e la mia emotività, non più protetta dalla presenza di colleghi o coordinatori. Quando la mia coordinatrice mi presentò freddamente al telefono la prima situazione, fui travolta da alcuni timori legati all’espormi così tanto, ma mi sentii pronta a mettermi in gioco. Rimasi un po’ nelle mie paure, ma per fortuna non ebbi molto tempo per pensarci troppo perché il servizio doveva iniziare subito. Chiamai le famiglie e mi accordai sul quando presentarmi. Con una di queste famiglie, dovevo dedicare 4 ore settimanali. Al telefono, mi rispose la mamma del bambino con cui ci accordammo per gli incontri. Il bimbo aveva 8 anni, frequentava la terza primaria, non dovevo sapere nient’altro per questioni di privacy, l’importante nel nostro lavoro era solo costruire una relazione con questi bambini.
Prima di approcciarmi a lui, pensai, era necessario avere un buon primo impatto con i genitori, conquistare la loro fiducia. E, infatti, la prima volta che andai a casa loro, lo feci in punta di piedi. Mi accolse sua mamma, una donna molto dolce e di una grande sensibilità, umile a differenza della casa: un vecchio casale ristrutturato in chiave moderna. Era stata progettata da suo marito architetto che conobbi solo più avanti perché impegnato sempre con il lavoro. Lei lavorava come ausiliare a scuola e oltre al bambino di cui mi sarei occupata io, aveva anche un altro figlio di qualche anno più grande, in fase pre adolescenziale che vedevo uscire dalla sua stanza molto raramente, ma affezionatissimo al fratellino. Attorno ai quattro componenti della famiglia, inoltre, era molto presente il nonno materno che spesso si occupava del nipote più piccolo.
Il bambino era un piccolo angioletto dai capelli biondi e ricci e degli occhi azzurro cielo come sua madre. I suoi occhi mi colpirono molto, non solo per la bellezza, ma purtroppo perché notai dei movimenti molto innaturali, da lì capii che qualcosa era stato compromesso a livello neuronale. Infatti, sua mamma mi raccontò che aveva poca memoria e spesso dovevano ripetergli anche informazioni fondamentali come dove abitasse o il suo nome. Inoltre, la sua comunicazione era molto ristretta. Raccontava spesso le stesse storie che il più delle volte erano un miscuglio di eventi vissuti in prima persona, oppure faceva descrizioni ossessive di qualcosa in tutti i suoi particolari, come ad esempio la casa gialla dei vicini.
Con lui mi fu difficile poter trovare un gancio da cui partire per instaurare una relazione iniziale, allora mi concentrai sul fargli fare i compiti che gli assegnavano a scuola, almeno per poter rafforzare ulteriormente le piccole cose che riusciva a memorizzare. Mi accorsi subito che erano davvero poche, non riconosceva neanche le vocali, però era lì, volenteroso, si sedeva al mio fianco e insieme ripetevamo le lettere. La volta successiva, purtroppo, mi accorgevo che non si ricordava già più nulla. Devo confessare che ero molto sfiduciata e demoralizzata nel vedere un bambino di quell’età così perso nel mondo, cosciente del fatto che poco potevo fare con le mie sole competenze. Uno spiraglio arrivò un giorno quando sua madre mi disse che il bambino aveva iniziato a fare terapia da una psicomotricista due volte a settimana e mi chiese se in uno dei miei pomeriggi potessi accompagnarlo io. Accettai e iniziammo questo percorso insieme.
Cercavo di parcheggiare sempre più o meno nello stesso punto, di modo tale che con il bambino memorizzavamo, anche se breve, il tratto per raggiungere lo studio della Dottoressa. Durante il tragitto gli descrivevo la scena, concentrandomi sui particolari come ad esempio il marciapiede bianco con il mattone rotto, la strada con le pietre grigie e rettangolari, il portone grande e verde. Cercavo di allenargli la memoria ed evitare che lui ritornasse nei suoi soltiti racconti in loop.
La psicomotricista fu subito molto accogliente e, al terzo incontro, mi propose di entrare e di vedere anch’io cosa facessero, cosicché io ripetessi le stesse cose a casa e istruissi anche i famigliari. La Dottoressa aveva uno scaffale con su delle cartelline colorate, ognuna per ogni suo piccolo paziente, così, appena entrati, guardando il bambino gli chiese: “Prendi la tua cartellina, ricordi di che colore è?” E dopo un paio di tentativi, accompagnati da frasi del tipo Pensaci bene, il bimbo ricordava il colore e prendeva la sua cartellina. Dentro c’era un quaderno e alcuni disegni. Iniziava sempre chiedendogli come si chiamasse, la data, il giorno della settimana e quale fosse il giorno prima e dopo. Se oggi è martedì, ieri era? E domani sarà?
I primi mesi andarono così, con esercizi sul prima-dopo, sopra- sotto e destra- sinistra. E gli stessi esercizi li ripetevo il secondo pomeriggio che andavo a casa da lui, in presenza delle mamma. A casa facevamo molti esercizi che coinvolgevano il movimento. Ad esempio, quando dovevamo fare il concetto sopra-sotto, facevo una specie di gioco del Cucù, ora avevo la testa nella parte superiore del tavolo, ora mi piegavo ed ero sotto. Oppure facevamo dei passi seguendo le mattonelle del pavimento, un passo avanti, uno dietro, uno a sinistra, uno a destra, uno prima e l’altro dopo. I concetti destra-sinistra, furono più difficili per lui da memorizzare, ma con l’aiuto del movimento sulle mattonelle quadrate, la Dottoressa iniziò a fargli usare un quaderno a quadretti grandi. Inizialmente solo per fargli evidenziare il contorno di ogni quadretto, cosicché interiorizzasse il concetto di spazio sul quaderno entro cui poi sarebbe entrata ogni letterina. Successivamente passò alle lettere. Il suo metodo non era di fargli memorizzare una lettera alla volta, o le sillabe, ma gli mostrava un insieme di lettere scritte a stampatello e in alto c’era indicata quale lettera doveva trovare e cerchiare, dopo aver letto e fatto ripetere al bambino la lettera in questione. Poi le lettere, diventarono frasi intere entro cui doveva cerchiare le lettere che conosceva, cercando di fargliele leggere e, in alcuni casi diventavano vere e proprie parole. Scoprii dopo che era il Metodo Feuerstein, ovviamente personalizzato sul soggetto.
Dopo vari mesi, verso la fine del mio servizio che di solito si interrompeva poco prima dell’estate per riprendere a Settembre, il bambino aveva memorizzato il suo nome, quello di tutti i suoi famigliari e il mio, inoltre aveva iniziato a leggere e scrivere qualche parolina. Tutto questo fu possibile grazie ad un lavoro sinergico tra la psicomotricista, me che facevo da ponte tra la Dottoressa e la famiglia che comunicava con la scuola. Compresi quanto fosse importante un lavoro sinergico per contribuire al benessere del bambino e di tutti i suoi cari. Purtroppo a Settembre non mi fu affidata più quella stessa famiglia e, anzi, su comunicazione dei miei superiori, non dovevo più avere nessun tipo di contatto con loro, né sapere chi mi avesse sostituito, era la loro politica. Imparai che non potevo permettermi di affezionarmi troppo alle persone che incrociavo durante il mio lavoro, un modo per preservare la mia emotività e lo trovai giusto, accettai di avere una specie di affettività a tempo e solo entro la quale poter donare tutte le mie energie.
Tiziana Casertana
Laureata in Scienze dell’educazione con indirizzo multiculturale