Il coinvolgimento emotivo dell’educatore
Il secondo incarico come servizio domiciliare riguardava una famiglia composta da una giovane coppia con due figli di 2 e 3 anni.
Il mio compito era preparare la famiglia ad accogliere la diagnosi della Neuropsichiatria infantile sul primo bambino, disturbo dello spettro autistico. Io avrei dovuti aiutarli ad accettare la situazione.
Il primo pomeriggio che mi presentai, mi accolse la mamma che mi dichiarò subito di essere stupita dal fatto che fossi giovane, si aspettava una vecchia signora. Lei aveva due anni meno di me ed era disoccupata, le mancavano tre esami alla Laurea in Ingegneria, ma aveva lasciato gli studi dopo la nascita dei figli e soprattutto da quando il primo aveva iniziato a perdere il linguaggio. Mi raccontò che il bimbo parlava fino all’anno precedente, ma di colpo aveva smesso emettendo solo dei versi e, le insegnanti, le avevano consigliato di portarlo in Neuropsichiatria per degli accertamenti. Ed eccomi qua io, pronta a ricevere la notizia insieme a loro. Pensavo che il mio sarebbe stato un semplice supporto, nulla di impegnativo, perché, dalle informazioni che avevo, la famiglia era benestante o, comunque, non era una di quelle famiglie di cui il servizio Asl si prendeva carico solitamente. Ma i miei pensieri cambiarono giorno dopo giorno. Iniziai a capire che il lavoro era molto più lungo e difficile.
La loro casa era un piccolo appartamento con due stanze da letto, una cucina, un bagno e un salotto con il balcone che si affacciava sulla strada principale al primo piano. Puntualmente, alle quattro del pomeriggio, ora del mio arrivo, trovavo le tapparelle abbassate e il letto matrimoniale disfatto, l’unico che in realtà usassero tutti e quattro, la cucina con i piatti ancora da lavare e resti di cibo sulla tavola. La mamma a stento pronunciava qualche parola, mentre il bambino di cui mi dovevo occupare, dopo un paio di mie visite, iniziò, al mio arrivo, ad alzare le finestre e a sistemare il letto. A tre anni e con i suoi “problemi”! Pensai. Aveva smesso di parlare ma, in compenso, aveva sviluppato una grande sensibilità empatica. Nelle settimane che seguirono, mi affezionai molto a quel bambino. Grazie a lui, ero riuscita a vedere la disabilità come qualcosa che ci portiamo dentro più “noi” che ci giudichiamo “normali”.
Subito dopo il responso della Neuropsichiatria, partecipai ad un incontro con gli “addetti ai lavori” e mi dissero di più sulla mamma. Aveva famigliarità con la depressione, sua sorella era in carico dalle Asl da anni, sua mamma era mancata dopo un brutto male e lei rifiutava di curarsi nonostante fossero sempre più evidenti i suoi momenti depressivi. Mi presi in carico tutti, non solo il bambino, fu quasi spontaneo, ma sovraccaricai molto il mio lato emotivo. Dopo un anno con loro, non avevo più nessuna autorevolezza in quella famiglia, ormai mi avevano inglobato nei loro problemi. Quindi quando finì il servizio, mi sentii quasi sollevata.
Era ormai passato più di un mese dall’inizio della scuola, quando ricevetti una telefonata della mamma, mi confidò che era preoccupata perché ancora non le avevano assegnato nessuna educatrice il pomeriggio. Chiamai la mia responsabile che si stupì della notizia e, dopo un giro di telefonate, capimmo entrambe che la collega a cui era stata affidata quella famiglia, aveva poca voglia di fare quel servizio. Allora, ci fu affidato per metà. In realtà io sarei andata 2 volte a settimana, la mia collega una. E invece di trovare collaborazione, trovai un gran bel muro. La mia collega non mi chiamò mai né mi rispose per accordarci almeno sulle strategie comuni, non voleva proprio nessun confronto. Si faceva le sue due ore settimanali in quella casa e basta.
Io sentivo raddoppiato il peso per quella situazione perché la mamma continuava a chiedermi continuamente aiuto e il bambino stava affrontando l’ultimo anno di scuola dell’infanzia. Non vidi nessun cambiamento in lui, la situazione con il bimbo era statica mentre le sue stereotipie erano sempre più crescenti: saltellava da una parte all’altra della stanza gridando i soliti versi, agitava le mani e muoveva le dita sempre nello stesso modo. Io non riuscivo a fare mai nulla di concreto, sempre chiusi in quella casa dove regnava il caos più totale, uscivo da quella casa stravolta. Era per me un anno pieno di impegni lavorativi, quel servizio domiciliare era in esubero dalle mie ore, non riuscivo a gestire la situazione e non ricevevo risposta dalla mia coordinatrice quando le chiedevo di aiutarmi ad alleggerire il carico di lavoro.
Cercavo di far capire alla mamma che il problema principale in casa fosse il suo benessere. Le consigliai di farsi seguire da un terapista, soprattutto perché continuava a prendere psicofarmaci prescritti ormai da troppo tempo dal suo medico di base senza nessun supporto specialistico. Lei non mi ascoltava, ma in qualche modo cercò di prendersi una parte della sua vita in mano. Riprese a studiare, diede gli ultimi esami di Ingegneria, scrisse la tesi e nel giro di quattro mesi, si laureò. Mentre, per fortuna riuscii ad iscrivere il bimbo ad un corso propedeutico di musica. Almeno una volta a settimana, riuscivamo ad uscire solo io e lui, il quale, si ritrovò in un ambiente che gli piaceva molto perché adorava la musica. Partecipava sempre serenamente, pur non riuscendo a svolgere le attività come gli altri.
Pensai che finalmente qualcosa nella mamma si fosse smosso. E invece, gli ultimi mesi prima dell’estate e quindi verso la fine del servizio, decise, per puro capriccio, di prendere un cane, con la scusa che servisse a suo figlio. La “cagnolina” era un cucciolo di boxer di 60 kg, con tanto di bava e, in pochi mesi, occupò tutti gli spazi della casa. La avevano pagato anche 800 euro per il pedigree. Comprare un cane per me era impensabile, considerando tutti quelli abbandonati nel canile. Ma solo quel tipo di razza, diceva sua madre, era consigliabile per i bambini autistici. Ebbi un bel po’ di dubbi su questa affermazione. E i miei dubbi furono confermati subito. La stazza di quel cane era troppo grande per un trilocale con due bimbi piccoli. Inoltre, nessuno portava il cane fuori per i suoi bisogni. Ad Isotta, così la chiamarono, era concesso uscire sul balcone dove, oltre i secchi della differenziata, erano poste le traverse che il cane usava e, spesso, chi si ricordava di cambiarle era proprio il bimbo che, guardando e indicandole sporche sul balcone, urlava ricercando l’attenzione della mamma affinché le togliesse. Ormai dormivano tutti e cinque nello stesso letto matrimoniale, i giochi dei bambini erano distrutti dai morsi e il salone era diventato la stanza dei giochi del cane. Le condizioni igieniche erano sempre più trascurate.
Poco prima della pausa estiva, riuscii ad avere un incontro con la Neuropsichiatra e la mia coordinatrice in cui presentai una relazione descrivendo la situazione che si stava creando in quella casa. Decidemmo che dovevamo cambiare completamente il progetto educativo. La mia figura di educatrice domiciliare poteva fare ben poco dentro quella casa, per migliorare il benessere del bambino in vista dell’inizio della scuola primaria, dovevo cercare di tenerlo fuori casa il più possibile. Ci accordammo che l’anno seguente avrei avuto a disposizione delle stanze del Centro Autismo da utilizzare con il bambino per svolgere alcune attività.
Oltre questo incontro, volli avere un confronto con l’intera famiglia, nonna paterna compresa, per cercare di far capire a tutti loro che le condizioni in quella casa non erano appropriate per nessun bambino. L’unica che comprese il mio discorso, fu la nonna che mi promise di fare qualcosa solo per il bambino perché per la mamma anche lei poteva fare ben poco. E infatti, a fine settembre, quando ritornai da questa famiglia, la nonna era riuscita ad avere la possibilità di far seguire il bambino da una bravissima psicomotricista del CLP (Centro Logopedia e Psicomotricità). A quanto pare era cosa difficile poter avere una disponibilità da questa Dottoressa perché era una specie di luminare nel campo, conosciuta anche all’estero. Infatti aveva pazienti che arrivavano persino dalla Francia per lei. Avevo chiesto un po’ in giro e mi avevano confermato queste voci. Al secondo incontro, accompagnai anch’io la mamma e il bimbo e, a fine seduta, la Dottoressa mi volle parlare da sola. Mi raccontò che la nonna del bimbo le aveva spiegato la situazione famigliare chiaramente e, altrettanto chiaramente mi disse che il problema del bambino era più ad un livello psicologico.
È come se fosse in una sua bolla di protezione, ma per fortuna, c’è un’alta possibilità di farla scoppiare…mi disse. E poi aggiunse:
Alla prossima seduta, te lo faccio parlare. E mi sorrise dolcemente, come se avesse letto in me quel bisogno di vedere una specie di “miracolo” che mi rincuorasse.
All’incontro successivo, lo accompagnai solo io. Aspettai fuori nel corridoio, finì la seduta, uscì accompagnato dalla Dottoressa. Era sull’uscio della porta con una matita in mano, mi guardò e…Ciao Tiziana. Gli andai incontro e lo abbracciai forte quasi trattenendo le lacrime. Guardai la psicomotricista e le dissi: Grazie, ha mantenuto la promessa!
Da quel giorno, quel piccolo angelo, piano piano aggiunse nuove parole. Ancora era difficile la produzione di intere frasi, ma in coordinazione con la scuola, la psicomotricista e la Neuropsichiatria, il bimbo riuscì a fare molti passi in avanti. Iniziò a scrivere le sue prime lettere e a produrre piccole frasi, seppur ripetitive.
Per la mamma era guarito del tutto. Anche quelle piccole attenzioni che aveva per suo figlio, infatti, sparirono. Entrò quasi in competizione con tutti quelli che si occupavano di suo figlio in cerca di attenzione. Ora tutti dovevano occuparsi solo di lei. Faceva continue richieste a suo padre che incolpava del fatto di essersi rifatto una vita dopo la morte di sua madre; chiedeva al suo compagno di continuo il perché non volesse sposarla e lui, di risposta, aumentò le sue assenze da casa prendendosi sempre più lavori. E le richieste verso di me furono strabordanti. Era in piena perdita di sé stessa quando finì il servizio.
A settembre mi licenziai dalla Cooperativa e, quando scrissi alla mamma per spiegarle che l mio percorso lavorativo stava prendendo altre strade, non mi rispose più, neanche quando chiesi del bimbo. Questa esperienza mi fece vivere personalmente il coinvolgimento emotivo sia mio che della famiglia. Arrivai al burnout, mi arrabbiavo perché non mi sentivo riconosciuta come figura professionale, ma venivo confusa come babysitter o, addirittura, dogsitter. Col tempo, confrontandomi anche con i miei colleghi, imparai a comprendere che la prima a dover avere quel riconoscimento, dovevo essere io.
Tiziana Casertano
Laureata in Scienze dell’educazione con indirizzo multiculturale