Armadi con mostri e cassetti con sogni

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita. 

Inferno, I, 1-3

Immaginiamo per un istante Dante in quella selva. È lì, smarrito, incapace di ritrovare il cammino. E se avesse pensato che, arrivato a quel punto, la cosa migliore da fare fosse proprio accettare lo smarrimento? E se, tutto sommato, avesse voluto perdersi nella selva oscura? Magari fu spinto dal suo anelito ad intraprendere il viaggio eroico che lo avrebbe condotto alla piena comprensione di se stesso.

Il primo passo di questo viaggio sarebbe dunque perdersi?

In realtà cos’altro è smarrirsi se non rendersi disponibili a perdere ciò che si aveva, per ritrovare chi si è davvero?

Una saggia sedicenne mi ha insegnato l’importanza di distinguere perdere da abbandonare. Quando perdiamo qualcosa non è mai perché lo vogliamo, non perlomeno coscientemente. Forse per questo perdere è anche l’opposto di vincere. Ma quando abbandoniamo, allora entra in gioco la nostra volontà che opera la scelta di ciò che teniamo e di ciò a cui rinunciamo, o che lasciamo andare. Qui è dove subentra la responsabilità.

Come esseri umani collezioniamo una quantità di esperienze che attraggono il nostro interesse. Dovremmo imparare a discernere quelle che abbiano valore e utilità. Alcune, a ben guardare, ci distolgono da noi stessi, ci impegnano in sforzi spesso poco efficaci e poco utili, fino a sfinirci ed irretirci in una condizione soporifera, un sonno di inazione che spegne la volontà. Che sia dunque il caso di abbandonarle scientemente?

Giunti a questo interrogativo, torniamo al nostro Dante: immaginiamo che ci stia raccontando, ancor più del suo smarrimento, soprattutto il bisogno di non lasciarsi bloccare proprio da quel sonno che lo aveva condotto a perdersi:

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,

tant’era pien di sonno a quel punto

che la verace via abbandonai.

 Inferno, I, 10-12       

Si abbandona la via della verità quando ci si perde nel sonno dell’assenza, stancati dall’inutile ci si addormenta nell’oblio e si dimentica se stessi. Mentre indugiamo in questo sonno, i nostri mostri ne approfittano per allontanarci da noi stessi, per farci perdere la connessione con la nostra natura, per rubarci il senno.  Risvegliarsi e uscire dall’oscurità non è mai facile, né rapido, e non può essere fatto in modi approssimativi e sommari. Occorre andare a riprendere se stessi, disponendosi anche ad avventurarsi nei luoghi delle ombre. Lo ben sperimenta il povero Dante, quando comprende che l’unica via di ricongiungimento con sé, e quindi di redenzione, sia avventurarsi nelle profondità dell’inferno.

L’intenzione e la scelta di addentrarsi nel proprio mondo interiore è la chiave di ogni percorso di psicoterapia.  Ci ritroviamo di fronte al baratro dove ci attende ciò che nel corso degli anni abbiamo riposto e trasformato in inconscio.

Allo stesso tempo in questo viaggio possiamo intravedere le altezze delle nostre potenzialità, l’elevazione della nostra coscienza che si ricongiunge con la nostra essenza più piena ed autentica. Sperimentiamo allora il supercosciente, o inconscio superiore. Nulla che abbia a che fare con strabilianti superpoteri, si tratta di quella parte della nostra psiche da cui discendono le intuizioni, i processi creativi, le idee e le immagini di cui noi stessi siamo stupiti, di cui ci compiaciamo strabiliati, pensando “da dove mai mi sarà uscito questo?”. L’inglese ha un nome evocativo per definire queste esperienze, enlightenment, illuminazione. Buddha è l’illuminato, così come Gesù appare trasfigurato nella sua luce divina ai tre apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo. Noi possiamo sperimentare questa esperienza come senso di intima soddisfazione e gioia. Potremmo immaginarlo come la nostra anima che sorride.

Non di solo inferno, quindi, è composta la psiche, ma farne esperienza completa vuol dire anche attraversare quella “notte oscura dell’anima” di cui parla il mistico San Giovanni della Croce.

Ecco perchè per affrontare la psicoterapia occorre smettere di celare la paura: questo è il senso del coraggio. Chi non ha paura più che coraggioso è incosciente, mentre chi riconosce di averla, e non solo una ma molteplici paure, può poi provare a fare luce su esse e quindi affrontarle.

Ma cosa sono le paure? Certo, le percepiamo attraverso manifestazioni quali ansia, angoscia, smarrimento, confusione, panico, depressione, rabbia, ma a guardare bene sono gli inganni che ci autoinfliggiamo, ogni volta che perdiamo anche solo un po’ della fiducia in noi stessi, e nella nostra capacità di cavarcela. Basta poco perché il mostro del dubbio si attivi, e condizioni la nostra visione di noi stessi, degli altri, delle cose, del mondo e della realtà. Una parola che percepiamo come ambigua, un attimo di smarrimento, un inconveniente non atteso, un insuccesso transitorio, consentono al nostro sabotatore di insinuarci pensieri martellanti che tendono a disgregare il senso di noi e delle nostre convinzioni. Viviamo il disagio di vederci vulnerabili e deboli, e così perdiamo la connessione con la nostra capacità di riconoscere e raccontare noi stessi. Non esistendo più un Io che racconta se stesso, diventiamo le nostre debolezze e le nostre paure, identificandoci con esse. Diremo di noi “sono debole” anziché “ho qualcosa che mi fa sentire debole”.

Riconosciamo di poter riprendere il racconto di noi grazie ad un “Io”, un centro di autoconsapevolezza, che ci permetta di distinguere fra ciò che siamo e ciò che abbiamo accumulato, spesso soffocando la nostra naturale essenza. Questi posticci potremo chiamarli attaccamenti, o anche dipendenze. Al contrario, l’autoconsapevolezza e la capacità di discernere e di scegliere ci rendono esseri umani dotati di una volontà propria e autonoma, non dipendente.

È a questo punto che compiamo l’importante passaggio dalla conoscenza delle cose alla coscienza del loro senso. Siamo al passaggio di Dante in Purgatorio, quando Virgilio che aveva finora condotto Dante, lo invita a bussare di sua volontà alla porta.

Il mio maestro mi spinse su per i tre gradini, cosa che accettai

volentieri, dicendo: «Chiedi umilmente che ti apra la porta»

Purgatorio, IX, 105-106

È l’alba di una sopraggiunta autonomia, la ricompensa del percorso fatto, la possibilità di accedere alla nostra coscienza autentica, la sola che può dirci se stiamo agendo in modo giusto o sbagliato.

Ma se si trovasse la soluzione, il gioco sarebbe finito.

Si sa, il viaggio non è arrivare. Immagina di essere sul limitare di un grande bosco. Forse è quella selva oscura che Dante ha raccontato.

Qualcuno si affanna a ricercare le tracce dei sentieri tracciati da altri, salvo poi lamentarsi della bruttezza del percorso. Alcuni tentano di aprire nuove strade, imponendo il proprio ordine alla foresta incantata che li punisce per la loro arroganza.

Altri, pochi, osservano a lungo, cercano di cogliere i meravigliosi modi in cui la natura ha composto quel groviglio di piante, e poi provano a diventare parte di questo disegno, e così vanno, lasciandosi portare, ma attenti e coscienti di quanto accade. Questi sono coloro che agiscono, che si connettono alla loro stessa volontà grazie alla sintonia che stabiliscono con tutto e tutti, riuscendo a fare vuoto nella propria coscienza. In quel vuoto, in cui si sperimenta che nulla è davvero terribilmente importante ed essenziale, troviamo lo spazio per accogliere la vita, ciò che ci riserva e ciò da cui ci sentiamo attratti.

In questo modo scegliamo, liberamente.

I mostri degli armadi odiano quando questo accade, perché sanno che stanno svanendo, sostituiti dall’unica equazione che non si risolverà mai, perché è essa stessa soluzione. È la curiosità.

Non avere mai paura della tua curiosità, e non fartela rubare. È la chiave che apre i cassetti in cui sono custoditi i tuoi sogni.

Pietro Alessandro Caforio
Psicologo clinico e psicoterapeuta